venerdì 23 novembre 2012

Orsù, siamo ... serial



Domenica scorsa, su "LaRepubblica" ho trovato un paio di interessanti articoli che trattavano della serialità nel cinema e in televisione.
Questi sono gli anni dei sequel, dei prequel, delle fiction e dei loro spin off.
Sembrerebbe essersi esaurita la vena creativa degli sceneggiatori, che preferiscono andare sul sicuro (ma non sempre il risultato li premia) o forse è il marketing che preme per andare su prodotti già' apprezzati dal pubblico.
La mia sensazione è che ci sia anche qualcos'altro: ovvero la necessità o volontà di sostituire la nostra quotidianità con quella, virtuale, dei serial; ecco perché  mentre è difficile vedere qualcuno andare al cinema da solo, le serie tivvù sono facilmente fruibili in solitudine, a casa, per poi parlarne e commentarle su forum, blog, social network. 
Per parlare dell'ultima puntata o dello scorso episodio non serve andare in pizzeria, basta una banda larga.
Nasce da noi stessi, dalla difficoltà di creare rapporti interpersonali che non siano filtrati da schermi, connessioni e tastiere ?
O forse è voluta da chi queste serie le crea, le studia, le plasma, proprio per tenerci chiusi dentro casa e darci solo l'illusione di vedere il mondo che ci circonda ?
Ci sono la Matrice e Grande Fratello dietro a Dexter, a Gregory House e a Benjamin Linus ?
Di seguito i due articoli, un pò lunghi ma interessanti.
Buona lettura

MAI DIRE FINE
L' opinione pubblica chiede al criminale: ti sei pentito? Alla vittima: hai perdonato? Al narratore: a quando il seguito? A volte criminale, vittima e narratore coincidono e le tre domande configurano la stessa forma di indulgente recidività.
Chissà se qualcuno l'ha già chiesto a Julian Barnes: «ha in programma un sequel del suo ultimo romanzo?».
Non è detto, infatti, che all'ottimo scrittore basti avere intitolato la sua opera Il senso di una fine per suggerire ai lettori che almeno in questo caso non scatterà l'automatismo che moltiplica, protrae, tendenzialmente eterna le narrazioni.
Nel mondo della fiction è come se tutte le ultime pagine, o gli ultimi fotogrammi, frame, tavole al posto di «The End» portassero le parole «To be continued».
Siamo al trentesimo (circa) titolo delle avventure di Salvo Montalbano, in meno di vent'anni; al ventitreesimo film di James Bond; non manca troppo alla puntata numero 6500 di Beautiful; Dylan Dog ha compiuto ventisei anni, e solo di albi della serie mensile pubblicata da Bonelli siamo oltre le trecento storie.
Nulla deve più davvero finire.
Ciò che ci è piaciuto deve ripresentarsi, ancora e ancora (nel senso di again, non in quello di still ).
Fumetti, film d'azione, letteratura popolare.
Dov'è la novità? Prima di Montalbano c'era Maigret, prima di Beautiful c'era Sentieri, prima (e durante) Dylan Dog c'è Tex.
In quanto a James Bond, il primo film della serie è del 1962, cinquant'anni tondi.
Da sempre, insomma, la fiction più popolare non molla l'osso.
Se il pubblico si è affezionato a un personaggio, a una data situazione narrativa, alla ricostruzione di un'epoca perché non continuare a riproporgli la medesima pietanza? Fargli conoscere un nuovo personaggio è molto più difficile che fargliene riconoscere uno già noto.
L'ovvia legge è stata confermate da tutte le saghe multimediali e di diverso genere, da Harry Potter a Twilight, da Transformers all'Era glaciale ... Si riuniscono rock band e brand, tornano in classifica i Beatles, tornano i Supereroi dei fumetti come Batman e Spiderman, i Vampiri: il pop non seppellisce niente e nessuno, anche perché le sue «icone» sono come zombie sempre pronti a ritornare (ivi compresi gli Zombie in senso proprio).
Se in mezzo al tripudio di Mad Men, Dexter, Downton Abbey, Boardwalk Empire si è arrivati al ritorno di Dallas (sia pure non proprio benedetto dal successo) vorrà proprio dire che niente che sia stato di moda una volta non può ritornare a esserlo.
«Quale storia laggiù attende la fine?». Dai tempi in cui Italo Calvino se la rivolse nel suo Se una notte d' inverno un viaggiatore la domanda è rimasta del tutto in sospeso.
Fine? Cosa vuol dire? Non saremmo troppo sorpresi se venisse annunciato un Aureliano secondo ritorna a Macondo. 
Anzi, la scorsa settimana molti musi si sono allungati per la sorpresa negativa dell' annunciato ritiro di Philip Roth: niente più Nathan Zuckerman? Possibile? Ma la storia recente dell' artista come revenant ci lascia sperare che Philip Roth ci ripensi, un po' come Tina Turner, o Michael Schumacher. 
Non solo la letteratura di genere, infatti, brandisce il brand a colpi di saghe, prequel e sequel o trilogie, tetralogie e oltre, come nelle cinquanta (x 3) «Sfumature», nelle detection scandinave,o nel fantasy del Trono di spade.
Da serie di opere accomunate anche solo da rapporti tematici o atmosfere (come nella filmografia di Krzysztof Kieslowskio nella letteratura di Javier Marías) sino a spin off, prequel e sequel, riprese e integrazioni, i narratori in attività sembrano tornare sempre più insistentemente sui propri passi, o moltiplicare i punti di vista e variare la medesima azione narrativa, come fa la moviola calcistica peri fuorigioco controversi. 
Forse succede perché gli autori stessi sono cresciuti già nell'era della serialità diffusa, forse è per cercare un compromesso con le leggi del marketing (ormai estese anche ai territori della letteratura non di genere), forse è perché gli standard sconsigliano di azzardare volumetrie tolstoiane e durate da Sergio Leone, ma sta di fatto che molti progetti si sviluppano o addirittura nascono direttamente su più volumi, come per i tre dell'1Q84 di Haruki Murakami o i cinque del 2666 di Roberto Bolaño.
Hilary Mantel ha pubblicato i primi due volumi di una trilogia, con la biografia fittizia del personaggio storico Thomas Cromwell (entrambi hanno vinto il Booker Prize). 
In Italia lo si è visto con Paolo Sorrentino e i due romanzi con protagonista Tony Pagoda (che già sostanzialmente proveniva da un film dello stesso autore); con Alessandro Baricco e Tre volte all'alba, derivato dal precedente Mr Gwyn; o con l'ultimo Premio Strega, il romanzo Inseparabili, che è il secondo della dilogia Il fuoco amico dei ricordi di Alessandro Piperno. 
È pure vero che, per quanto riguarda la letteratura universale, se pensiamo a Iliade e Odissea, in principio era il sequel. 
Per la lingua italiana l' imprinting viene da Inferno, Purgatorio e Paradiso, che è oltretutto parzialmente postumo, come la Recherche o 2666. 
Essere postumo è ottimo, per un sequel: segnala che il prolungarsi dell' opera può anche trascendere i limiti umani dell' esistenza dell' autore. 
Ma è proprio lo stesso tipo di serialità? Ha senso accostare i sette volumi di Proust e quelli di Harry Potter? Forse sì; ma forse sarebbe invece come sostenere che quello fra Antico e Nuovo Testamento è un binomio analogo a Gargantua e Pantagruel o ai salgariani Corsaro Nero e Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, perché in tutti questi casi si racconta prima la storia del padre e poi quella di figlio o figlia. 
La narrazione seriale ha modificato il funzionamento ciclico della catarsi, che ora non si compie più nel momento dello «scioglimento» finale, il dénouement dei narratologi, ma è disseminato in una quantità di scioglimenti parziali e minori. 
Nelle serie tv, per esempio, si intrecciano vicende limitate alla singola puntata, vicende che si svolgono per due puntate o per l' intera serie stagionale, e anche vicende che oltrepassano le stagioni, con un continuo succedersi di scioglimenti e riannodamenti. 
È a quelli, oramai, che il pubblico si è affezionato e anzi assuefatto (anche in senso clinico): nessuna Misery osi mai più morire. 
Nessuno vuole più sapere «che fine fa» Oliver Twist o Jean Valjean; il pubblico vuole convivere con il suo eroe, vedere cosa gli toccherà questa volta, chi è il nuovo cattivo e chi la nuova ragazza di James Bond. 
Come andrà a finire, lo si sa. 
La sua vita non si limita incrociare la nostra, ma le scorre parallela. 
Si deve tenere anche nel giusto conto che rispetto anche solo agli anni Settanta e Ottanta, il mondo della serialità tv non si nutre più dell' estetica Cheap & Kitsch di soap opera e telenovelas. 
Il lynchiano Chi ha ucciso Laura Palmer? sul momento poteva apparire come un' isolata bizzarria, ma dopo qualche anno si è deciso che poteva far scuola e almeno da E. R. in poi l' idea che i serial potessero essere francamente belli non è più apparsa strana. 
Quando si arriva a Grey's Anatomy, Lost o Mad Men, o quando Martin Scorsese firma la prima puntata di Boardwalk Empire ci si rende conto che oramai il medium è diventato egemone. 
Sarà anche un caso, ma Sam Mendes, il cui American Beauty ha informato l' estetica di Desperate Housewives è il regista dell' ultimo James Bond (i cui libri, in Italia, ora sono editi da Adelphi). 
Aleggia il mito di Shahrazad: la storia continua a non finire, non incomincia mai a finire e il tempo stesso che perde il suo capo e la sua coda: è notte e non è mai ora di finire, c' è sempre un' altra fiaba da ascoltare, un' altra puntata da vedere, un altro capitolo da leggere. 
Esaurito il danaro, spendiamo la ricchezza che ci resta in forme di godimento che si possono perpetuare solo tramite la ripetizione. 
Il Paradiso non è durativo, è iterativo. 
L' Arte pare infatti aver rinunciato a perseguire l' immortalità del «Per sempre» per accontentarsi della costanza implacabile e un po' allucinata dell' «Un' altra volta ancora». 
Lo storytelling dà dipendenza. 
Ogni narrazione tende a diventare mondo e né un mondo né una narrazione finiscono davvero: a finire sono solo, prima o poi, coloro che li contemplano.
STEFANO BARTEZZAGHI

L'ETERNA ATTRAZIONE DELLA SERIALITA' CHE CI FA AFFEZIONARE AI PERSONAGGI
Ho guardato esclusivamente serie tv per quasi cinque anni, stanco di cinema d'essai che davano brutti film francesi sull'amore minimo.
Di recente ho ricominciato, stimolato dalla lista del British Film Institute con cui a scadenza decennale critici e registi votano i loro film preferiti.
Tornato a guardare e rivedere grande cinema con continuità, una cosa mi pare chiara: ad affezionarmi ai personaggi nemmeno ci provo. 
Il regista in crisi di Otto e mezzo? Una settimana dopo è acqua passata, come un incontro in treno. 
I meriti sono altri: la luce, le linee, la confusione controllata. 
Le serie hanno una luce peggiore e raramente i grandi spazi aperti o i piani sequenza, in compenso tengono molta compagnia. 
Prendiamo Mad Men, la serie in costume anni Sessanta sui pubblicitari dell'East Side. 
Ho passato il 2012 a fremere per il matrimonio di Don Draper con Megan, una ventiquattrenne canadese prima naif e umana poi velleitaria e frustrata. 
Per me e una grossa fetta dei miei amici e parenti i problemi dei Draper hanno monopolizzato la conversazione. Resisterà la coppia alla tendenza di lui, pubblicitario "dal passato oscuro", ad andare a letto con chiunque? Riempirà di corna anche Megan come già la prima moglie? Ognuno di noi, meno belli e realizzati, ha comunque voluto vedere in Draper la più chiara formulazione dell'equazione della Relatività Emotiva Generale: successo + fascino = crollo nervoso². 
Non sappiamo poi cosa farcene di Megan, come capita sempre con le nuove fidanzate, sempre più giovani, degli amici. 
Il cinema non può contrastare la quantità di legami che si creano guardando le serie sotto le lenzuola, da soli o in coppia, con il computer sulla coperta o la televisione ai piedi del letto.
Un'altra coppia di Mad Men in cui ci siamo rivisti è quella di Peggy e il suo fidanzato comunista. 
Peggy è la donna emancipata in un periodo in cui l'emancipazione femminile non è ancora cosa gradita. Nell'editoria, ambito che frequento, tende a diventare l'idolo di ogni editor o redattrice che si trova a fare notte rivedendo le bozze mentre il fidanzato vuole dormire. 
Kieslowski non può competere con l'attualità della questione.
Di stretta attualità nella nostra vita affettiva sono i protagonisti di due serie tra le migliori di quest'anno: Breaking Bad e Homeland. 
Breaking Bad è la storia di Walter White, un professore di chimica frustrato che scopre la sua vocazione autoritaria e sanguinaria diventando un signore della droga con il pretesto che essendo malato di cancro deve mettere da parte dei soldi per la famiglia.
Quest'anno, alla quinta stagione, White ha creato preoccupazione tra i suoi appassionati perché gli sceneggiatori sono andati poco per il sottile nel farlo diventare un personaggio impossibile da ammazzare nonostante si sia messo contro tutta la malavita del sud degli Stati Uniti. 
Sono preoccupazioni di incoerenza, che è il suicidio virtuale del personaggio, ciò che lo stacca dal cuore dell'appassionato. 
Il discorso vale anche per l'agente della Cia sotto psicofarmaci interpretata da Claire Danes in Homeland: l'inizio della seconda stagione è stato così forzato che per alcuni è difficile continuare a sentire come reali e degne d'empatia le struggenti crisi di nervi della Danes.
È in corso in Inghilterra la terza stagione di Downton Abbey, eccitante soap postedoardiana con una magione come posta in palio nella guerra di good manners fra l'aristocrazia e la borghesia. 
Le ragazze borghesi più problematiche adorano le mises della figlia maggiore del padrone di casa, repressa sessualmente com'è giusto che sia, e che alla prima scoperta del sesso si ritrova nel letto un amante cadavere. Da lì la compassione è inevitabile.
Anche se non frequento le serie "verticali", quelle da singolo episodio, non posso non menzionare Dr. House. Non l'ho mai guardato perché è del genere Tenente Colombo: ogni episodio fa storia a sé, è scritto in maniera da permettere la visione a un non iniziato, quindi non regala i piaceri feuilletoneschi del grande arco di ascesa e/o declino dei personaggi. 
House è però molto amato per la grande umanità, la derivazione dionisiaca dalle avventure di Sherlock Holmes, l'utilizzo holmesiano del metodo deduttivo nella professione. 
Conosco professori di liceo che ne usano metodi e principi in classe con gli studenti. 
Non è reale, ma è un mentore, come Amadigi sa ispirare grandi imprese, ed entra nelle vite degli spettatori come da tempo ai grandi romanzi e ai grandi film non riesce più.
FRANCESCO PACIFICO

Articoli tratti da "La Repubblica" 18-11-2012 pagg. 44 - 45 sez. CULTURA

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