Domenica scorsa, su "LaRepubblica" ho trovato un paio di interessanti articoli che trattavano della serialità nel cinema e in televisione.
Questi sono gli anni dei sequel, dei prequel, delle fiction e dei loro spin off.
Sembrerebbe essersi esaurita la vena creativa degli sceneggiatori, che preferiscono andare sul sicuro (ma non sempre il risultato li premia) o forse è il marketing che preme per andare su prodotti già' apprezzati dal pubblico.
La mia sensazione è che ci sia anche qualcos'altro: ovvero la necessità o volontà di sostituire la nostra quotidianità con quella, virtuale, dei serial; ecco perché mentre è difficile vedere qualcuno andare al cinema da solo, le serie tivvù sono facilmente fruibili in solitudine, a casa, per poi parlarne e commentarle su forum, blog, social network.
Per parlare dell'ultima puntata o dello scorso episodio non serve andare in pizzeria, basta una banda larga.
Nasce da noi stessi, dalla difficoltà di creare rapporti interpersonali che non siano filtrati da schermi, connessioni e tastiere ?
O forse è voluta da chi queste serie le crea, le studia, le plasma, proprio per tenerci chiusi dentro casa e darci solo l'illusione di vedere il mondo che ci circonda ?
Ci sono la Matrice e Grande Fratello dietro a Dexter, a Gregory House e a Benjamin Linus ?
Di seguito i due articoli, un pò lunghi ma interessanti.
Buona lettura
MAI DIRE
FINE
L'
opinione pubblica chiede al criminale: ti sei pentito? Alla vittima: hai
perdonato? Al narratore: a quando il seguito? A volte criminale, vittima e
narratore coincidono e le tre domande configurano la stessa forma di indulgente
recidività.
Chissà se qualcuno l'ha già chiesto a Julian Barnes: «ha in
programma un sequel del suo ultimo romanzo?».
Non è detto, infatti, che all'ottimo scrittore basti avere intitolato la sua opera Il senso di una fine per
suggerire ai lettori che almeno in questo caso non scatterà l'automatismo che
moltiplica, protrae, tendenzialmente eterna le narrazioni.
Nel mondo della
fiction è come se tutte le ultime pagine, o gli ultimi fotogrammi, frame,
tavole al posto di «The End» portassero le parole «To be continued».
Siamo al
trentesimo (circa) titolo delle avventure di Salvo Montalbano, in meno di vent'anni; al ventitreesimo film di James Bond; non manca troppo alla puntata numero
6500 di Beautiful; Dylan Dog ha compiuto ventisei anni, e solo di albi della
serie mensile pubblicata da Bonelli siamo oltre le trecento storie.
Nulla deve
più davvero finire.
Ciò che ci è piaciuto deve ripresentarsi, ancora e ancora
(nel senso di again, non in quello di still ).
Fumetti, film d'azione,
letteratura popolare.
Dov'è la novità? Prima di Montalbano c'era Maigret,
prima di Beautiful c'era Sentieri, prima (e durante) Dylan Dog c'è Tex.
In
quanto a James Bond, il primo film della serie è del 1962, cinquant'anni
tondi.
Da sempre, insomma, la fiction più popolare non molla l'osso.
Se il
pubblico si è affezionato a un personaggio, a una data situazione narrativa,
alla ricostruzione di un'epoca perché non continuare a riproporgli la medesima
pietanza? Fargli conoscere un nuovo personaggio è molto più difficile che
fargliene riconoscere uno già noto.
L'ovvia legge è stata confermate da tutte
le saghe multimediali e di diverso genere, da Harry Potter a Twilight,
da Transformers all'Era glaciale ... Si riuniscono rock band e brand, tornano
in classifica i Beatles, tornano i Supereroi dei fumetti come Batman e
Spiderman, i Vampiri: il pop non seppellisce niente e nessuno, anche perché le
sue «icone» sono come zombie sempre pronti a ritornare (ivi compresi gli Zombie
in senso proprio).
Se in mezzo al tripudio di Mad Men, Dexter, Downton Abbey,
Boardwalk Empire si è arrivati al ritorno di Dallas (sia pure non proprio
benedetto dal successo) vorrà proprio dire che niente che sia stato di moda una
volta non può ritornare a esserlo.
«Quale storia laggiù attende la fine?». Dai
tempi in cui Italo Calvino se la rivolse nel suo Se una notte d' inverno un
viaggiatore la domanda è rimasta del tutto in sospeso.
Fine? Cosa vuol dire?
Non saremmo troppo sorpresi se venisse annunciato un Aureliano secondo ritorna a
Macondo.
Anzi, la scorsa settimana molti musi si sono allungati per la sorpresa
negativa dell' annunciato ritiro di Philip Roth: niente più Nathan Zuckerman?
Possibile? Ma la storia recente dell' artista come revenant ci lascia sperare
che Philip Roth ci ripensi, un po' come Tina Turner, o Michael Schumacher.
Non
solo la letteratura di genere, infatti, brandisce il brand a colpi di saghe,
prequel e sequel o trilogie, tetralogie e oltre, come nelle cinquanta (x 3)
«Sfumature», nelle detection scandinave,o nel fantasy del Trono di spade.
Da serie
di opere accomunate anche solo da rapporti tematici o atmosfere (come nella
filmografia di Krzysztof Kieslowskio nella letteratura di Javier Marías) sino a
spin off, prequel e sequel, riprese e integrazioni, i narratori in attività
sembrano tornare sempre più insistentemente sui propri passi, o moltiplicare i
punti di vista e variare la medesima azione narrativa, come fa la moviola
calcistica peri fuorigioco controversi.
Forse succede perché gli autori stessi
sono cresciuti già nell'era della serialità diffusa, forse è per cercare un
compromesso con le leggi del marketing (ormai estese anche ai territori della
letteratura non di genere), forse è perché gli standard sconsigliano di
azzardare volumetrie tolstoiane e durate da Sergio Leone, ma sta di fatto che
molti progetti si sviluppano o addirittura nascono direttamente su più volumi,
come per i tre dell'1Q84 di Haruki Murakami o i cinque del 2666 di Roberto
Bolaño.
Hilary Mantel ha pubblicato i primi due volumi di una trilogia, con la
biografia fittizia del personaggio storico Thomas Cromwell (entrambi hanno
vinto il Booker Prize).
In Italia lo si è visto con Paolo Sorrentino e i due
romanzi con protagonista Tony Pagoda (che già sostanzialmente proveniva da un
film dello stesso autore); con Alessandro Baricco e Tre volte all'alba,
derivato dal precedente Mr Gwyn; o con l'ultimo Premio Strega, il romanzo
Inseparabili, che è il secondo della dilogia Il fuoco amico dei ricordi di
Alessandro Piperno.
È pure vero che, per quanto riguarda la letteratura universale,
se pensiamo a Iliade e Odissea, in principio era il sequel.
Per la lingua
italiana l' imprinting viene da Inferno, Purgatorio e Paradiso, che è
oltretutto parzialmente postumo, come la Recherche o 2666.
Essere postumo è
ottimo, per un sequel: segnala che il prolungarsi dell' opera può anche
trascendere i limiti umani dell' esistenza dell' autore.
Ma è proprio lo stesso
tipo di serialità? Ha senso accostare i sette volumi di Proust e quelli di
Harry Potter? Forse sì; ma forse sarebbe invece come sostenere che quello fra
Antico e Nuovo Testamento è un binomio analogo a Gargantua e Pantagruel o ai
salgariani Corsaro Nero e Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, perché in tutti
questi casi si racconta prima la storia del padre e poi quella di figlio o figlia.
La narrazione seriale ha modificato il funzionamento ciclico della catarsi, che
ora non si compie più nel momento dello «scioglimento» finale, il dénouement
dei narratologi, ma è disseminato in una quantità di scioglimenti parziali e
minori.
Nelle serie tv, per esempio, si intrecciano vicende limitate alla
singola puntata, vicende che si svolgono per due puntate o per l' intera serie
stagionale, e anche vicende che oltrepassano le stagioni, con un continuo
succedersi di scioglimenti e riannodamenti.
È a quelli, oramai, che il pubblico
si è affezionato e anzi assuefatto (anche in senso clinico): nessuna Misery osi
mai più morire.
Nessuno vuole più sapere «che fine fa» Oliver Twist o Jean
Valjean; il pubblico vuole convivere con il suo eroe, vedere cosa gli toccherà
questa volta, chi è il nuovo cattivo e chi la nuova ragazza di James Bond.
Come
andrà a finire, lo si sa.
La sua vita non si limita incrociare la nostra, ma le
scorre parallela.
Si deve tenere anche nel giusto conto che rispetto anche solo
agli anni Settanta e Ottanta, il mondo della serialità tv non si nutre più
dell' estetica Cheap & Kitsch di soap opera e telenovelas.
Il lynchiano Chi
ha ucciso Laura Palmer? sul momento poteva apparire come un' isolata bizzarria,
ma dopo qualche anno si è deciso che poteva far scuola e almeno da E. R. in poi
l' idea che i serial potessero essere francamente belli non è più apparsa
strana.
Quando si arriva a Grey's Anatomy, Lost o Mad Men, o quando Martin
Scorsese firma la prima puntata di Boardwalk Empire ci si rende conto che
oramai il medium è diventato egemone.
Sarà anche un caso, ma Sam Mendes, il cui
American Beauty ha informato l' estetica di Desperate Housewives è il regista
dell' ultimo James Bond (i cui libri, in Italia, ora sono editi da Adelphi).
Aleggia il mito di Shahrazad: la storia continua a non finire, non incomincia
mai a finire e il tempo stesso che perde il suo capo e la sua coda: è notte e
non è mai ora di finire, c' è sempre un' altra fiaba da ascoltare, un' altra
puntata da vedere, un altro capitolo da leggere.
Esaurito il danaro, spendiamo
la ricchezza che ci resta in forme di godimento che si possono perpetuare solo
tramite la ripetizione.
Il Paradiso non è durativo, è iterativo.
L' Arte pare
infatti aver rinunciato a perseguire l' immortalità del «Per sempre» per
accontentarsi della costanza implacabile e un po' allucinata dell' «Un' altra
volta ancora».
Lo storytelling dà dipendenza.
Ogni narrazione tende a diventare
mondo e né un mondo né una narrazione finiscono davvero: a finire sono solo,
prima o poi, coloro che li contemplano.
STEFANO
BARTEZZAGHI
L'ETERNA
ATTRAZIONE DELLA SERIALITA' CHE CI FA AFFEZIONARE AI PERSONAGGI
Ho
guardato esclusivamente serie tv per quasi cinque anni, stanco di cinema d'essai
che davano brutti film francesi sull'amore minimo.
Di
recente ho ricominciato, stimolato dalla lista del British Film Institute con
cui a scadenza decennale critici e registi votano i loro film preferiti.
Tornato a guardare e rivedere grande cinema con continuità, una cosa mi pare
chiara: ad affezionarmi ai personaggi nemmeno ci provo.
Il regista in crisi di
Otto e mezzo? Una settimana dopo è acqua passata, come un incontro in treno.
I
meriti sono altri: la luce, le linee, la confusione controllata.
Le serie hanno
una luce peggiore e raramente i grandi spazi aperti o i piani sequenza, in
compenso tengono molta compagnia.
Prendiamo Mad Men, la serie in costume anni
Sessanta sui pubblicitari dell'East Side.
Ho passato il 2012 a fremere per il
matrimonio di Don Draper con Megan, una ventiquattrenne canadese prima naif e
umana poi velleitaria e frustrata.
Per me e una grossa fetta dei miei amici e
parenti i problemi dei Draper hanno monopolizzato la conversazione. Resisterà
la coppia alla tendenza di lui, pubblicitario "dal passato oscuro",
ad andare a letto con chiunque? Riempirà di corna anche Megan come già la prima
moglie? Ognuno di noi, meno belli e realizzati, ha comunque voluto vedere in
Draper la più chiara formulazione dell'equazione della Relatività Emotiva
Generale: successo + fascino = crollo nervoso².
Non sappiamo poi cosa farcene
di Megan, come capita sempre con le nuove fidanzate, sempre più giovani, degli
amici.
Il cinema non può contrastare la quantità di legami che si creano
guardando le serie sotto le lenzuola, da soli o in coppia, con il computer
sulla coperta o la televisione ai piedi del letto.
Un'altra
coppia di Mad Men in cui ci siamo rivisti è quella di Peggy e il suo fidanzato
comunista.
Peggy è la donna emancipata in un periodo in cui l'emancipazione
femminile non è ancora cosa gradita. Nell'editoria, ambito che frequento, tende
a diventare l'idolo di ogni editor o redattrice che si trova a fare notte
rivedendo le bozze mentre il fidanzato vuole dormire.
Kieslowski non può
competere con l'attualità della questione.
Di
stretta attualità nella nostra vita affettiva sono i protagonisti di due serie
tra le migliori di quest'anno: Breaking Bad e Homeland.
Breaking Bad è la
storia di Walter White, un professore di chimica frustrato che scopre la sua
vocazione autoritaria e sanguinaria diventando un signore della droga con il
pretesto che essendo malato di cancro deve mettere da parte dei soldi per la
famiglia.
Quest'anno, alla quinta stagione, White ha creato preoccupazione tra
i suoi appassionati perché gli sceneggiatori sono andati poco per il sottile
nel farlo diventare un personaggio impossibile da ammazzare nonostante si sia
messo contro tutta la malavita del sud degli Stati Uniti.
Sono preoccupazioni
di incoerenza, che è il suicidio virtuale del personaggio, ciò che lo stacca dal
cuore dell'appassionato.
Il discorso vale anche per l'agente della Cia sotto
psicofarmaci interpretata da Claire Danes in Homeland: l'inizio della seconda
stagione è stato così forzato che per alcuni è difficile continuare a sentire
come reali e degne d'empatia le struggenti crisi di nervi della Danes.
È in
corso in Inghilterra la terza stagione di Downton Abbey, eccitante soap
postedoardiana con una magione come posta in palio nella guerra di good manners
fra l'aristocrazia e la borghesia.
Le ragazze borghesi più problematiche
adorano le mises della figlia maggiore del padrone di casa, repressa
sessualmente com'è giusto che sia, e che alla prima scoperta del sesso si
ritrova nel letto un amante cadavere. Da lì la compassione è inevitabile.
Anche se
non frequento le serie "verticali", quelle da singolo episodio, non
posso non menzionare Dr. House. Non l'ho mai guardato perché è del genere
Tenente Colombo: ogni episodio fa storia a sé, è scritto in maniera da
permettere la visione a un non iniziato, quindi non regala i piaceri
feuilletoneschi del grande arco di ascesa e/o declino dei personaggi.
House è
però molto amato per la grande umanità, la derivazione dionisiaca dalle
avventure di Sherlock Holmes, l'utilizzo holmesiano del metodo deduttivo nella
professione.
Conosco professori di liceo che ne usano metodi e principi in
classe con gli studenti.
Non è reale, ma è un mentore, come Amadigi sa ispirare
grandi imprese, ed entra nelle vite degli spettatori come da tempo ai grandi
romanzi e ai grandi film non riesce più.
FRANCESCO
PACIFICO
Articoli tratti da "La Repubblica" 18-11-2012 pagg. 44 - 45 sez. CULTURA
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